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Stato di salute dell'INPS e prospettive

20 Luglio 2012 Previdenza

Per gentile concessione della rivista una città, pubblichiamo gran parte di un’interessante intervista di Barbara Bertoncin ad Alberto Brambilla, già Presidente del “Nucleo di Valutazione della Spesa Previdenziale” presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali dal luglio 2008, con incarico di coordinamento dei Casellari degli Attivi e dei pensionati, attuale coordinatore del comitato tecnico scientifico di Itinerari Previdenziali

Avete da poco presentato il Rapporto del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale. Può spiegarci in che stato versa oggi il nostro sistema pensionistico?
Come nucleo di valutazione abbiamo fatto il monitoraggio e il controllo sugli ultimi bilanci consolidati che sono 2009-2010.
Diciamo che la situazione non è né disastrosa né rosea. Chi afferma che l’Inps ha un bilancio in forte attivo dice una cosa non corretta. In realtà la situazione del 2010 è che tra i contributi versati da noi tutti e dalla produzione e le prestazioni erogate c’è un disavanzo di 13 miliardi di euro. Nello specifico, le spese per pensioni (senza la quota assistenziale) sono circa 198 miliardi e i contributi sono circa 185 miliardi. I 13 miliardi non sono una cifra enorme per un sistema che nel totale eroga più di 230 miliardi, però rappresentano un certo passivo, soprattutto considerando che è crescente nel tempo perché passiamo dai due miliardi di qualche anno fa ad addirittura una situazione di pareggio di qualche anno prima.
C’è poi la quota di denaro che il governo ogni anno trasferisce all’Inps per la Gias, la gestione degli interventi di tipo assistenziale. Per il 2010 parliamo di 33 miliardi che, sommati ai 13, fanno 46 miliardi.
Ecco, quando noi ci lamentiamo per le tasse alte, dobbiamo ricordare che quello che non pagano i contributi deve essere pagato dalla fiscalità generale. Allora, la prima osservazione è che è vero che le pensioni non sono alte, però è altrettanto vero che noi per le pensioni spendiamo tanto. E non è finita qui. Perché poi ci sono le pensioni e gli assegni sociali, le pensioni di guerra (che ammontano a circa un miliardo e trecento milioni) e poi ci sono tutte le pensioncine di invalidità (circa 240 euro a testa) e gli accompagnamenti. Tutto questo costa ulteriori 22 miliardi e mezzo. Insomma, alla fine per mandare avanti questo baraccone che costa circa 260 miliardi l’anno, dalla fiscalità generale, da chi paga le tasse dobbiamo tirar fuori quasi 70 miliardi. Che è una cifra molto grossa.

A volte si sente dire che c’è un problema di redistribuzione. In realtà se prendiamo il bilancio 2010, che prevede una spesa totale, compresa di interessi sul debito pubblico, per 807 miliardi, vediamo che circa 410 sono pura redistribuzione in pensioni, assistenza e sanità. Dopodiché, dobbiamo tenere conto che ci sono circa 130 miliardi per i dipendenti pubblici, altri 130-140 per la macchina pubblica (per pagare le utenze, gli affitti, la carta, eccetera) e circa 80-85 per il debito pubblico. Quindi, come vede, più redistribuita di così…
Diceva che noi spendiamo molto in previdenza. Quanto incide sul Pil la nostra spesa pensionistica?
Negli ultimi 7-8 anni noi ci siano mantenuti su un’incidenza del 13,5%. Va anche detto che in questo 13,5% noi abbiamo circa 21 miliardi, che sono le integrazioni al minimo e le maggiorazioni sociali, che per esempio la Germania considera come aiuti alla famiglia, mentre noi le consideriamo pensioni.
Ci sono poi gli assegni ai nuclei familiari che vengono dati ai pensionati poco abbienti. Tutto questo all’incirca porta a due punti percentuali. Se togliessimo dal 13,5% questi due punti di Pil, saremmo a 11,5, che è la media europea.
Quello che comunque mi sembra importante sottolineare, e che ho ribadito anche in Commissione lavoro, è che in questa indagine abbiamo diviso l’assistenza dalla previdenza, nel senso che quella spesa è ancora tutta nel capitolo pensioni ma noi sappiamo esattamente quanto spendiamo per quella voce.
Tornando al discorso dell’incidenza, è chiaro che se il denominatore, cioè il Pil, non cresce, la percentuale aumenta e infatti noi abbiamo assegnato per il 2010 uno sbalzo al 15% di incidenza e prevediamo di chiudere il 2011 con un 15,2%. Purtroppo il 2012 non è un bell’anno e il terremoto delle scorse settimane rischia di avere un impatto molto negativo.
Nelle scorse settimane si è sentito parlare dei sette milioni di persone che ricevono una pensione inferiore ai mille euro al mese…
Ecco, bisognerebbe però spiegare che parliamo di sette milioni di contribuenti che giunti a 65 anni di età non sono riusciti in una vita a mettere da parte 15 anni di contribuzione normale.
In Europa mediamente il tasso fisiologico degli “sfortunati”, cioè di coloro che hanno avuto problemi dal punto di vista fisico, mentale o qualche disgrazia, va dal 3% al 6%, grosso modo. Qui parliamo di sette milioni di prestazioni su 23, beh, a me sembra evidente che c’è qualcosa che non quadra.
Allora, è vero che con seicento euro non si vive, occorrerebbe però anche dire che, se si dovesse applicare il metodo contributivo a queste persone, avrebbero cento euro di pensione. Cioè bisogna che sia chiaro che questi pensionati non hanno pagato; alcuni perché non hanno potuto, ma la maggior parte semplicemente non ha pagato le tasse e lo Stato gli sta dando un premio.
Trovo che questo modo di dare le notizie dell’Istat e dei vari enti sia davvero discutibile, soprattutto nei confronti delle giovani generazioni, che invece avrebbero grande bisogno di sapere come stanno le cose.
Teniamo presente che tutti quelli che hanno cominciato a lavorare dal 1 gennaio del 1996 con la legge Dini, che ho contribuito anch’io a scrivere, non avranno né l’integrazione al minimo né le maggiorazioni sociali.
Infatti bisognerebbe dire questo ai ragazzi giovani: attenzione se non versate, nonostante i problemi di bilancio, ecc. non sarà come per i nostri vecchi che comunque lo Stato pantalone pagava a piè di lista. A voi non sarà dato niente perché il metodo contributivo, proprio per legge, non prevede maggiorazione.
L’unica cosa che lascia in termini solidaristici è l’assegno sociale per cui se a 65 anni uno non è arrivato ad accumulare i contributi necessari lo Stato paga. È l’unica funzione solidaristica.
Per chiudere il capitolo sui numeri, noi, oltre ai sette milioni citati, abbiamo anche oltre tre milioni tra assegni sociali, pensioni sociali di invalidità, di guerra, ecc.
In conclusione, su 23 milioni e rotti di pensioni in pagamento, ne abbiamo oltre 10 milioni, cioè il 46% che, se non pagasse lo Stato, non avrebbero quasi nulla.
Allora, è vero che c’è quest’enorme pressione fiscale. Però, se fossimo onesti, dovremmo anche riconoscere che siamo un po’ un popolo di imbroglioni.
In base ai dati dell’Agenzia delle entrate, che fa parte come membro esterno del nucleo di valutazione, risulta che su 41 milioni di contribuenti, i primi 14 dichiarano un reddito inferiore ai 6000 euro e quindi non pagano niente. Tra parentesi, di questi ce n’è una metà di pensionati e quindi va bene così, ma gli altri? Poi ce ne sono altri 13 milioni che dichiarano fino a un massimo di quindicimila euro. Insomma, un paese così non va da nessuna parte. Cioè, con queste tasse non paghiamo nemmeno la spesa sanitaria. Ogni anno noi spendiamo 130 miliardi nel settore sanitario, divisi per 60 milioni di abitanti sono 2000 e rotti euro a testa.
Dall’altra parte, se invece andiamo a prendere l’analisi che ha fatto l’Ocse, viene da chiedersi com’è possibile che siamo così poveri se siamo i primi per numero di auto pro capite, per numero di moto pro capite, per numero di televisioni pro capite, per numero di telefonini pro capite, e soprattutto per numero di abitazioni di proprietà?!
Noi facciamo sempre l’esempio della Danimarca e della flexicurity, ma se andiamo a vedere i danesi, meno del 50% ha una casa di proprietà. Insomma, c’è qualcosa che non va.
Allora, per concludere, il rapporto del nucleo tende a dire: la situazione non è disastrosa però, attenzione, perché se non c’è più morale, né senso dello Stato e la gente continua così, beh, non andiamo molto distanti.
Ecco, questo è un po’ il quadro.
Tra le tabelle che avete elaborato colpisce il saldo attivo dei parasubordinati e invece il buco dei dipendenti pubblici.
Queste sono le dinamiche tipiche di tutti sistemi previdenziali. Sistemi previdenziali giovani, come la Nuova Zelanda, il Cile, ecc., sono passati attraverso lo stesso fenomeno. È infatti evidente che quando si crea una nuova gestione, si parte con tutta gente che versa e nessuno che prende. La gestione dei parasubordinati è partita alla metà del ‘96 e, salvo qualche piccola prestazione (perché qualcuno magari ha fatto l’amministratore per cinque anni e arrivato ai 65 anni sì è fatto liquidare), la stragrande maggioranza ha un’età mediana molto bassa, quindi questa cassa è un po’ come l’ente nazionale dei periti, degli infermieri, degli psicologi o dei biologi, tutte categorie nate da poco come gestione. Questi incassano 100 e spendono lo 0,5 per pensioni.
L’importante, in questa situazione, è non ripetere l’errore che è stato fatto negli anni 50-60-70, quando si diceva: siccome abbiamo solo entrate, abbiamo un patrimonio sterminato, possiamo spendere tutto quello che vogliamo. Questo è quello che è capitato alla gestione dei pubblici; non hanno mai chiesto agli enti locali, allo Stato di pagare regolarmente, tanto poi al momento della pensione facevano il calcolo e lo Stato pagava a piè di lista. La cosa è andata avanti finché il rapporto tra pensionati e attivi è rimasto a uno a cinque, uno a quattro. Ma quando si arriva a una situazione in cui ci sono tre milioni e mezzo di attivi e due milioni e mezzo di pensionati, chi paga il conto? Lo paga l’attuale giovane generazione, quella che peraltro, come dicevo, riceverà ben altro trattamento.
Proprio per questo da tempo dico che la gestione dei parasubordinati va tutelata affinché questi quattrini vadano a costruire quel patrimonio necessario a pagare le prestazioni di tutti coloro che andranno in pensione nei prossimi decenni.
Per dire, oggi i periti industriali che vanno in pensione sono nell’ordine delle decine all’anno, ma tra 15 anni saranno nell’ordine delle centinaia e tra vent’anni delle migliaia.
Ecco, bisogna organizzarsi per tempo. Non è vero che questi contributi sono “silenti”, che queste persone non prenderanno mai la pensione. Le curve in realtà sono buone e quindi il tasso di sostituzione, sempre che l’economia tenga, sarà positivo. Il problema è appunto quello di tutelare una parte di questi risparmi. Personalmente, almeno una parte li metterei segregati.
Oggi il sistema funziona a ripartizione, che vuol dire che ogni anno noi prendiamo i soldi delle gestioni attive e li prestiamo alle gestioni deficitarie che riconoscono gli interessi della media del Bot annuale. Ecco, io invece penserei a fare un patrimonio segregato a favore delle giovani generazioni. Ovviamente non partendo da subito perché non ci sono i soldi: se non ci rinnovano il prossimo Btp a cinque anni non sappiamo neanche come pagare le pensioni dopodomani. Però, insomma, con il tempo, lo metterei segregato.
Detto questo, l’attivo dei subordinati e il passivo dei pubblici sono gli effetti di una gestione giovane e di un’altra molto matura. Nella più matura di tutte, l’agricoltura, abbiamo un tasso di quattro pensionati per ogni attivo, un comparto che costa otto miliardi all’anno per pagare la pensione a meno di un milione di persone. Una cifra stravolgente.
Si dice che nel sistema contributivo uno tanto dà e tanto prende. In realtà ci sono dei vincoli. Può spiegare?
Il sistema contributivo permette di andare in pensione quando un lavoratore abbia maturato almeno una volta e mezzo l’assegno sociale, quindi circa 600 euro. Ora, ipotizzando che un giovane cominci a lavorare a 25-27 anni, siccome l’età di pensionamento in Europa sarà 67 anni, ha davanti 40 e passa anni di lavoro. Per maturare quei 600 euro dovrebbero bastare 15-20 anni di versamenti normali. Se invece riuscirà a fare più versamenti avrà una pensione normale. C’è poi il vincolo di 2,8 volte l’assegno sociale, ma questo solo se anticipo, cioè se voglio andare via prima dell’età di vecchiaia.
Mi sembra quindi che i margini ci siano.
E il vincolo dei 20 anni di contributi?
Bisogna fare un discrimine. La legge Amato aveva esentato dal raggiungimento dei 20 anni coloro che, al 31 dicembre 1991, avevano già raggiunto i 15 anni, oppure avevano in essere dei procedimenti per la contribuzione volontaria o erano assistiti da ammortizzatori sociali. Tutti gli altri devono arrivare ai 20, altrimenti perdono tutto. La regola è questa. Può sembrare dura, ma così è stata pensata.
Però, attenzione: questo vale per il pregresso, cioè i retributivi e i misti. Per i contributivi puri basterebbero i cinque anni di contributi, con l’obbligo però, come dicevo, di avere accumulato almeno una volta e mezzo volte l’assegno sociale per andare in pensione. Ora, va da sé che non bastano cinque anni, ce ne vogliono di più. Comunque sia c’è meno rischio di perdere contribuzione, che è sempre una brutta cosa. Pensi se uno ha fatto 18 anni… Comunque poi c’è la totalizzazione oppure le ricongiunzioni onerose o ancora le contribuzioni volontarie. Per cui il consiglio è: “Tenere sempre sotto mano la situazione previdenziale”. Se mancano tre anni si può fare un co.co.pro (la totalizzazione infatti consente di unire i periodi assicurativi pari o superiori a tre anni); se invece manca un anno, una contribuzione volontaria vale ben la pena per raggiungere il requisito minimo senza perdere i contributi versati.
Riguardo i lavoratori senza lavoro e senza pensione, lì ci sarà un problema di coperture perché la norma non può dire: da oggi devi avere 20 anni, se ieri mi avevi detto che ne bastavano 15. A mio modesto avviso, se un signore si presenta alla Corte costituzionale o fa una denuncia in Cassazione, gli danno ragione.
Comunque, per concludere, un lavoratore normale, un operaio, un impiegato, che mediamente prende 1100-1150 euro, pagando i contributi per 25 anni su quella quota riesce agevolmente ad andare in pensione. Anche chi fa un part-time sotto i mille euro arriva alla soglia dell’1,5 volte l’assegno sociale. Tenga conto che comunque prima dei 65-66 anni sarà difficile poter andare in pensione e quindi già lo stesso coefficiente di trasformazione diventa più generoso, per quanto si possa definirlo così.
Sono provvedimenti ragionevoli, se ci pensa, perché noi fino a un po’ di anni fa abbiamo consentito di andare in pensione a età basse. Il problema è che se io lavoro per trent’anni e sto in pensione altri trent’anni i conti non tornano. Nessun paese può permettersi che tu mi versi per trent’anni il 25% dello stipendio e io poi ti devo dare per trent’anni il 75%. La matematica non è un’opinione!
Comunque, ripeto, per i contributivi il profilo età-requisiti di pensionamento è più favorevole rispetto ai vecchi retributivi e misti: c’è tutto il tempo per potersi fare una buona previdenza.
Io sono molto positivo sulla partita del contributivo.
Ma soprattutto è un sistema equo, cioè ognuno prende per quello che ha dato. Voi oggi state pagando (e la pagherete fino a 2025) una somma enorme per pagare la pensione di gente che con il metodo retributivo per trent’anni ha versato pochi euro, negli ultimi cinque ha versato mille euro e noi per tutta la vita residua gli daremo il 70% dei mille euro. Se andate a vedere la tabella, questi si sono pagati la pensione per tre, quattro, cinque anni, gli altri venti li dobbiamo pagare noi!
Lei è stato tra gli ideatori e promotori della cosiddetta “busta arancione”, un’idea nata in Svezia dove i lavoratori ogni anno ricevono appunto una busta arancione che li informa sulla loro situazione previdenziale.
Io ho scritto la norma nel 2001. Era una norma molto innovativa che abbiamo discusso a Bruxelles. Bruxelles infatti ha sancito che ogni paese deve avere come obiettivo la stabilità finanziaria, l’adeguatezza delle prestazioni e la modernizzazione del sistema. Questo provvedimento va nell’ambito della modernizzazione.
La norma è stata approvata nel 2004, nel 2005 si è insediata questa commissione che ho sempre presieduto io, anche con Damiano. Una commissione a zero lire, senza gettone di presenza, come il Nucleo che non ha né gettone di presenza né remunerazione. Infatti i miei tre collaboratori e io dal 2007 stiamo lavorando senza avere remunerazione. “A titolo onorifico”, come si dice.
Noi avevamo 25 enti previdenziali, abbiamo quindi dovuto intanto creare un linguaggio informatico e telematico univoco per farli colloquiare.
Il risultato è stato una banca dati che oggi ci può dire, mese per mese, quanti sono i pensionati e quanti i lavoratori dipendenti attivi, e io posso vederli per regione, per provincia, per settore merceologico, per genere. Posso sapere quanti posti di lavoro sono stati creati e distrutti, quanti sono i sussidi disoccupazione. Abbiamo messo insieme un sistema esattamente come quello americano.
Al 16 dicembre abbiamo mandato i primi 100.000 estratti conto, che noi, visto che siamo italiani, abbiamo chiamato “busta azzurra”. Abbiamo già avuto oltre 60.000 risposte. In pratica, con il pin e la password queste persone possono entrare nella loro posizione e di colpo vedere tutta la loro vita lavorativa. Tra l’altro, la busta azzurra, l’abbiamo mandata a quelli più difficili, cioè quelli che avevano due o più enti di appartenenza, che non devono più fare la totalizzazione o la ricongiunzione, avranno tutta la situazione davanti.
Abbiamo chiesto a queste persone di verificare la situazione, dopodiché, se hanno più di vent’anni, possiamo fare la proiezione esatta di quanto prenderanno di pensione ed eventualmente di quanto dovranno mettere da parte per farsi una pensione complementare, altrimenti possiamo dare un’indicazione di massima.
Questo è il primo esperimento. Adesso avremmo qui altri 6 milioni di estratti conti di altrettanti lavoratori italiani che hanno due o più casse di appartenenza. Dovevano partire tra maggio e giugno, ma pare che questa cosa non interessi a nessuno…
I maliziosi dicono che ci sarebbe una sollevazione popolare a vedere il proprio destino previdenziale.
Non è così. Sarebbe stato così se si fossero fatte le proiezioni mantenendo la possibilità di andare in pensione a 55 anni, ma questo davvero non esiste da nessuna parte del mondo. Ora, andare in pensione a 67 anni con una speranza di vita di 83-84 anni fa sì che la pensione si alzi. E, attenzione, non perché lo stato è generoso, ma banalmente perché aumentano gli anni di contribuzione e diminuiscono gli anni di fruizione.
Resta il problema che noi siamo un paese che non si sviluppa e questo conta. Ma comunque, indipendentemente da tutto, dare le informazioni corrette è un dovere morale: io devo dire a un giovane che avrà questa pensione.
In fondo basta che uno vada in Internet e clicchi su Ocse, Eurostat e cerchi i tassi di sostituzione, cioè il rapporto tra la prima pensione e l’ultima retribuzione. Voglio dire che se si guardano le pensioni dei paesi esteri ci si rende conto immediatamente che noi con l’80% eravamo battuti solo dalla Grecia e dal Portogallo e si è visto com’è andata a finire. Se andiamo a vedere la media degli altri paesi, si va da un minimo del 35% degli Stati Uniti a un massimo del 50%.
Quindi un tasso di sostituzione del 60% netto non è disprezzabile, anche perché si spera che uno in sessant’anni di vita magari un 10-15% di ulteriore tasso di sostituzione con la complementare l’abbia messo da parte.
Un soggetto di quell’età non ha più l’esuberanza e i costi di un giovane, quindi può anche vivere con l’80%.
In alcuni paesi, tra l’altro, il salario cresce fino a una certa data e poi nei sistemi di buona occupazione cala un po’. Anche qui dovrebbe aumentare il part-time. Quest’anno è l’anno dell’invecchiamento attivo; anche questo l’abbiamo segnalato nel rapporto suggerendo l’implementazione delle cosiddette staffette giovani-anziani.
Banca Intesa ha fatto un bell’esperimento, sotto questo punto di vista: chi si avvicina alla pensione inizia a lavorare solo quattro giorni così comincia a fare venerdì, sabato e domenica a casa, perché bisogna anche abituarsi a non fare niente sennò si diventa matti e si finisce ad andare sempre dal medico a chiedere farmaci.
(…)

ACTA

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