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Il lavoro economicamente dipendente nello Statuto del lavoro autonomo spagnolo

9 Novembre 2010 Dal mondo, Diritti, Lavoro

statuto lavoro autonomo spagnoloLa Spagna ha introdotto nel 2007 uno Statuto del lavoro autonomo, che rappresenta, come sottolineato nelle premesse del progetto di legge  “il primo esempio di ordinamento sistematico e unitario del lavoro autonomo nell’Unione Europea” e che ha stimolato la presentazione di proposte analoghe anche in Italia: la proposta locale di Statuto del lavoro autonomo della Regione Veneto (.PDF), proposto dalla Lega Nord, bocciato però il 22 ottobre per mancanza di copertura finanziaria, e quella nazionale del senatore Tiziano Treu (.PDF) del Partito Democratico.

Grazie alla traduzione di Elsa Orellana (AITI) e alle revisione di Adele Oliveri (ACTA) e Silvia Rondani (AITI) abbiamo una versione italiana dell’Estatuto del trabajo autónomo (.PDF)!

Particolarmente interessante è il Capitolo III, che riconosce e disciplina la figura del lavoratore autonomo economicamente dipendente, ripresa anche nelle due versioni italiane dello Statuto. Con essa si è voluto fornire una copertura giuridica ai lavoratori autonomi che, nonostante la loro autonomia funzionale, svolgono la loro attività senza dipendenti e con una forte e quasi esclusiva  dipendenza economica dall’imprenditore o dal cliente che usufruisce dei loro servizi (peso del cliente principale sul fatturato pari almeno al 75%).

Lo statuto si propone di tutelare questi lavoratori e a tale scopo prevede l’obbligatorietà di un contratto scritto, in cui dovrà essere esplicitata la condizione di dipendenza economica,  e la sua registrazione in un ufficio pubblico (analogamente a quanto accade in Italia per i contratti di collaborazione a progetto).

Nello Statuto si riafferma il carattere autonomo anche del lavoro economicamente dipendente

La dipendenza economica che la Legge riconosce al lavoratore autonomo economicamente dipendente non deve tuttavia essere fonte di equivoci: si tratta pur sempre di un lavoratore autonomo e tale dipendenza economica in nessun caso deve implicare la dipendenza organizzativa né la subordinazione.

Ma allo stesso tempo, in contraddizione con quanto sopra, lo Statuto interviene per garantire diritti che dovrebbero essere scontati per un lavoratore autonomo, quali il diritto ad almeno 15 giorni di ferie in un anno e rinvia a un accordo individuale o accordo d’interesse professionale (non la contrattazione collettiva, ma un accordo che coinvolga più persone e che vincola soltanto i suoi firmatari) la determinazione del regime di riposo settimanale e quello concernente le giornate festive, la quantità massima d’attività durante la giornata e, nel caso in cui tale quantità sia calcolata su base mensile o annuale, la sua distribuzione settimanale.

In sostanza lo Statuto prende atto dell’esistenza di situazioni di abuso, di lavoro solo formalmente autonomo e senza diritti, quindi individua un criterio che separa nettamente l’ambito da tutelare: l’esistenza di un cliente unico o prevalente. La scelta operata dal legislatore spagnolo è assolutamente insoddisfacente: da un lato non interviene per riportare le situazioni di finta autonomia verso il lavoro dipendente, ma definisce un inquadramento di serie B, con il riconoscimento di un limitato bagaglio di diritti; dall’altro lato inserisce obblighi e vincoli non necessari a chi, seppure monocommittente, è genuinamente autonomo, eludendo il problema della necessità di tutele per tutti i lavoratori, anche quando non assimilabili a lavoratori dipendenti.

Come detto, la definizione di “economicamente dipendente” è stata mutuata nelle proposte italiane di Statuto del lavoro autonomo e potrebbe essere utilizzata per definire l’ambito di intervento per misure importanti, come per esempio l’erogazione di ammortizzatori sociali. E’ quindi necessario analizzarne tutte le implicazioni.

Alla base di questa scelta c’è un sillogismo:

Premessa 1: se c’è monocommittenza c’è dipendenza economica;
Premessa 2: se c’è dipendenza economica c’è bisogno di tutele;
Conclusione: se c’è monocommittenza c’è bisogno di tutele.

Ma il sillogismo non è valido.

La prima premessa è oggettivamente corretta: se c’è una monocommittenza è evidente che c’è la dipendenza da un cliente, ma va osservato che questo vale anche se sono un’impresa con molti dipendenti e fatturato milionario. La seconda premessa, invece, non è corretta: il bisogno di tutele prescinde dalla monocommittenza e dalla situazione di dipendenza da un solo cliente.

Vediamo in pratica quali sono le fattispecie e le implicazioni possibili:

  1. sono monocommittente e sono un dipendente mascherato, che l’impresa ha deciso di inquadrare come autonomo per ridurre i costi indiretti (principalmente i costi legati a malattia, TFR, formazione ecc.) e per poter erogare compensi più bassi (non ci sono i vincoli della contrattazione collettiva). L’applicazione dello Statuto mi riconoscerebbe alcuni diritti da lavoro dipendente, ma si rinuncia a contrastare la situazione di abuso, sarei considerato un para-dipendente a cui assicurare un para-welfare;
  2. sono in tutto e per tutto autonomo, sono pagato per la prestazione e non per il tempo, ma lavoro per un solo committente per vari motivi (c’è crisi, perdo molti clienti, per fortuna non anche il mio cliente più importante; sono impegnato in un grosso progetto che mi coinvolge per alcuni anni e non mi lascia spazio per altri clienti, mi ritrovo ad avere un cliente principale perché è il cliente che paga meglio e quindi tendo ad accettare in via prioritaria le sue commesse ecc) . Che problemi mi porrebbe questa norma?
    Innanzitutto è possibile che io non voglia che il mio cliente sappia di essere il mio principale committente perché questo ridurrebbe il mio potere contrattuale. In secondo luogo se da questo essere il mio principale committente derivassero oneri nei miei confronti, il mio cliente potrebbe decidere che è meglio trovare un fornitore più forte: da unico committente mi ritroverei a zero committenti!
  3. ho molti clienti per un fatturato complessivo misero, ma superiore ai 4.000 euro (la soglia di disoccupazione per gli autonomi). Non ho diritto a nulla, devo solo morire…

Ma perché usare il criterio della monocommittenza?
Perché solo così è possibile ricondurre la situazione lavorativa al tipico rapporto lavoratore-impresa, facendo pagare all’impresa monocommittente l’insieme di tutele previste (attraverso una crescita degli oneri teoricamente a suo carico). In caso contrario chi pagherebbe? Occorrerebbe pensare a un sistema di tutele di tipo universale, non legate alla condizione di dipendente. Un salto mentale che il nostro modo politico e sindacale non sembra essere preparato ad affrontare.

Anna Soru

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3 Commenti

  1. Dario Banfi

    Reply

    Grazie Elsa e alle persone che hanno collaborato alla traduzione! E’ un testo importante per chi si occupa di questi temi e credo sia la prima traduzione che circola pubblicamente in Italia. Grazie davvero.

    9 Nov 2010
  2. Alfonso Miceli

    Reply

    Finalmente la traduzione e un’analisi chiara di un documento che sta ispirando diversi disegni di legge anche qui in Italia. Sono d’accordo che in questo modo si creerebbe un para-welfare per i para-subordinati, danneggiando quelli che sono anche genuinamente autonomi.
    Penso che sia l’ora per noi tutti di pensare a un sistema di tutele universali, ma attenzione… il mantenimento del sistema attuale vuol dire anche mantenere l’attuale sistema di rappresentanza.
    Forse l’idea di un cittadino titolare di diritti universali, invece che di un lavoratore soggetto a “tutele” decise a tavoli di contrattazione sempre più distanti è più rivoluzionaria di quanto possa sembrare.

    15 Nov 2010
  3. Pingback: ACTA

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di Anna Soru tempo di lettura: 4 min
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