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Innovazione sì, ma quale?

4 Aprile 2014 News

Il movimento Milano Civica ha organizzato giovedì 3 aprile un incontro sul tema “Innovazione, competenze, occupazione: le sfide per la nuova politica”, dove sono intervenuti gli assessori della giunta Pisapia Franco d’Alfonso e Cristina Tajani. Il tema si prestava per riprendere alcuni spunti che avevo avanzato nella lettera aperta al cd di ACTA, quindi mi è parso opportuno cogliere questa occasione per continuare il discorso e rompere certi luoghi comuni che sul tema innovazione si ripetono da anni e che purtroppo ho risentito anche in quella sede, dove l’intervento più sincero e interessante è stato quello della nostra collega di UnBreakFast Chiara Bonomi.

Innovazione sì, ma quale?

Troppo spesso si tende a circoscrivere il significato del termine “innovazione” a quelli che sono i progressi della tecnica o alle cosiddette “nuove tecnologie”, dando per scontato che la parola “innovazione” abbia sempre una valenza positiva. E’ un approccio doppiamente fuorviante, sia perché le innovazioni tecnologiche hanno talvolta degli effetti negativi sulla società, sull’ambiente, sugli stili di vita e sia perché l’innovazione di cui si sente maggiormente bisogno come motore di trasformazione positiva della vita umana non è quella tecnica ma è l’innovazione sociale. Cosa s’intende per innovazione sociale? Modi di organizzare la vita sociale ed i rapporti tra persone che s’instaurano all’interno di organismi complessi, come possono essere una città o un’azienda o una scuola o un ospedale. Modi nuovi di stare assieme, di lavorare, d’apprendere, di rivendicare i propri diritti, di gestire e valorizzare le proprie competenze ecc..
Un piccolo esempio può essere rappresentato da qualcosa che il Comune di Milano ha già cominciato a valorizzare e promuovere: gli spazi di coworking, luoghi dove, al di là dell’uso strumentale che può farne chi ha bisogno di una sede dove lavorare temporaneamente, sono anche luoghi di condivisione, costruzione di reti, superamento dell’individualismo e di apprendimento.
L’innovazione sociale che a me pare in questo momento più urgente è quella che produce una valorizzazione delle competenze presenti nelle “risorse umane”, come dicono i manager. Stiamo attraversando un periodo di grave svalutazione della competenza professionale. Proprio nel momento in cui si dovrebbe esaltare al massimo il contenuto di conoscenza ed esperienza della prestazione lavorativa, la preferenza del mercato va al fattore prezzo. Si pensi al sistema dei punteggi nella valutazione delle candidature ai bandi pubblici: chi fa i ribassi più consistenti nella maggior parte dei casi vince la gara. Un’innovazione nella pubblica amministrazione sarebbe quella di spostare l’accento sugli aspetti qualitativi dell’offerta.
Innovazione e valorizzazione delle competenze dovrebbero rappresentare un nesso inscindibile, mi riesce difficile giudicare innovativa un’azienda che, mentre mette sul mercato un prodotto nuovo (una nuova app per l’I Phone, per esempio), contemporaneamente tiene il 40% dei suoi dipendenti nella palude degli stages, dei contratti a tempo determinato, dei contratti a progetto o si alimenta di lavoro somministrato. Un’azienda che fa innovazione non può essere un’azienda che disprezza il valore della risorsa lavoro. Come può l’Italia vantarsi dei suoi creatori di moda o di capi d’abbigliamento di massa quando ne vediamo molti ricorrere a mano d’opera a basso costo di paesi dove impera il lavoro minorile? Non lavoravano forse per un’azienda italiana del pronto moda i cinesi morti nel rogo di Prato?
Noi dobbiamo seguire come modello quelle aziende italiane – e ce ne sono molte, soprattutto di media dimensione – che riescono ad ottenere risultati economici superiori alla media in termini di fatturato e di redditività perché hanno investito soprattutto in competenze, quelle che una recente ricerca dell’Ufficio Studi di Confindustria ha finalmente portato alla ribalta (molto poche appartengono al settore del cosiddetto made in Italy).
La svalorizzazione delle competenze sia nel settore pubblico che in quello dell’impresa privata è oggi il principale ostacolo all’innovazione, quando si lascia con leggerezza a casa un dipendente esperto per sostituirlo con un giovane che costa la metà, ci s’insabbia in un percorso che nel medio periodo porta alla perdita di competitività. Pertanto io credo che dobbiamo, perché l’Italia si riprenda dalla crisi morale, culturale ed economica in cui è caduta, operare una drastica inversione di marcia alle politiche di flessibilizzazione del lavoro che negli ultimi vent’anni non hanno prodotto né maggiore occupazione, né migliore occupazione, né maggiore valorizzazione delle competenze professionali. L’innovazione tecnica non è qualcosa che nasce dalla libera, spontanea creatività dell’uomo, nasce da un contesto di istituzioni e di norme che la rendono possibile, nasce da precise condizioni economiche. L’innovazione sociale è invece più praticabile con azioni di volontariato, è qualcosa che può nascere non da un diverso sistema normativo ma da un diverso modo di applicare quello esistente, è al tempo stesso più facile e molto più difficile, perché richiede un cambiamento nei modi di pensare, negli stili di vita e nei rapporti con gli altri. L’innovazione sociale entra sempre in collisione con il sistema vigente delle strutture gerarchiche e con le culture o le ideologie che le giustificano, per questo è così poco popolare. Ma se Milano vuole avere un futuro non può rinunciarvi.

Sergio Bologna

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di Sergio Bologna tempo di lettura: 3 min
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