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La flessibilità? Va fatta pagare, altrimenti sei morto

2 Agosto 2010 News

Per la rivista mensile “Una Città” Gianni Saporetti intervista  Bruno Manghi sul tema di Pomigliano (“La linea della reciprocità“). L’intervista si estende ad aspetti più generali del mercato del lavoro attuale, affrontando anche quello della flessibilità e del precariato.   

Così Manghi, nell’intervista:

[…] Poi in questa situazione entrano pesantemente le partite IVA. Allora qui il tema è talmente semplice quanto crudele: se tu la flessibilità non la fai pagare, sei morto. La flessibilità va bene se costa. Il principio è elementare, me lo diceva il mio amico Amoretti della CGIL, grande personaggio: tu vuoi la flessibilità? Pagala. Vuoi il notturno? Pagalo. Se, invece, c’è una flessibilità che costa pure meno, è la fine del mondo! Se dai i tirocinii ai laureati, è la fine del mondo. Qui è certo che bisogna fare delle correzioni, però bisogna farle attraverso accordi locali, perché se ci mettiamo a Roma a discutere, faremo 15 trasmissioni televisive, con Cremaschi da una parte e Sacconi dall’altra, e siamo finiti. Invece nell’Italia produttiva in particolare, in Emilia Romagna, in Lombardia, si possono fare degli accordi, in cui si correggono delle cose. A partire dal principio base che il vantaggio si deve pagare.
Infatti quello che funziona meno peggio è l’interinale, perché l’ora lavorata dall’interinale costa di più dell’ora normale, perché tu sei dipendente dell’azienda interinale, e l’azienda che ti prende deve pagare anche i tuoi datori di lavoro, quelli dell’agenzia. Secondo: un’azienda che usa l’interinale deve organizzarsi, non è che chiama uno, bim bum bam, no, deve avere un’organizzazione del lavoro capace di prevedere i momenti di punta, quindi con una certa maturità organizzativa.

Comunque l’interinale riguarda solo certe persone e certe aziende ben caratterizzate, il 3% circa, mentre invece l’IVA o il Co.Co.Pro sono sparse un po’ ovunque e non si vedono. [l’interinale è sempre meno utilizzato, proprio perché costa di più, si preferisce ricorrere a collaborazioni a progetto e Partite IVA perché si paga di meno, NdR].

Ma pensiamo allo scandalo delle microcooperative! Tu vai oggi anche in un grande ospedale, e prima di incontrare un dipendente dell’ospedale, incontri cinque persone che dipendono da altri. Il pubblico impiego, non i piccoli padroni, è il maggior produttore di precariato, in Italia. E la ragione è semplice: bloccate le assunzioni, alla fine ci si è salvati così, malamente. Però il pubblico impiego è un produttore di precariato indiretto impressionante.     

Saporetti allora chiede: “Ma si può rimediare? E come?”. Così risponde Manghi:

Certo, sono tutte cose che si possono correggere. Però non credo a delle cose mondiali, riformare la Biagi, eccetera, per carità, ci viene il mal di testa solo a pensarci. Le chiacchiere che si farebbero! Però accordi locali responsabili, per il tuo mercato del lavoro, quello che tu conosci, quelli sì, si potrebbero fare. Il mercato del lavoro è sempre locale, anche se grande […] Accordi di correzione e di sperimentazione. La parola riforma va abolita. Bisogna provare e poi vedere se funziona. Ovviamente sulla base di alcuni principi chiari, che, alla fine, si riducono alla decenza.

ACTA

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