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Freelance, coworking e Comune di Milano

25 Giugno 2012 Dal mondo, Fisco, Lavoro, News

Qualche tempo fa, insieme ad Adriana Nannicini, Sergio Bologna, Nicola Brembilla abbiamo cercato di portare sul tavolo del Comune di Milano il tema del coworking per sensibilizzare la municipalità. Ne parlammo già in campagna elettorale, prima delle elezioni vinte da Pisapia.

Milano Cowo Evento

Tredici mesi dopo il Comune ha deciso, anche su suggerimento di ACTA, di portare avanti l’argomento, convocando i protagonisti delle iniziative in città e qualche ospite straniero.

Di seguito trovate il mio intervento per esteso (in sala ne ho accennato soltanto in parte), scritto un po’ di corsa, in sostituzione di Sergio Bologna che oggi non è potuto venire a introdurre la giornata. Qualche riflessione generale, contaminata dalla bella esperienza di Berlino, dove ho incontrato una stupenda comunità internazionale di freelance, e in coda alcune riflessioni molto personali su alcuni elementi tecnici legati a IMU e IRAP.

Dario Banfi

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We are the workforce of the future

The freelance surge is the industrial revolution of our time, l’emergere del mondo dei freelance è la rivoluzione industriale dei nostri tempi, ha scritto su The Atlantic Sara Horowitz, presidente dell’associazione di freelance più grande al mondo. Noi come ACTA, che abbiamo stretto un gemellaggio con la Freeelancers Union, proprio qui a Milano, lo ricordiamo spesso, nelle occasioni in cui ci invitano a parlare, e scritto in un Manifesto del Lavoro autonomo, che andiamo in giro per l’Italia a rappresentare anche attraverso un’opera teatrale. We are the workforce of the future – dice la Horowitz – e non è un caso che i fenomeni paralleli più interessanti che si stanno verificando nel mondo del lavoro professionale autonomo siano da una parte la nascita di nuove forme di rappresentanza dei freelance – in Europa sono raccolte insieme ad ACTA nell’EFIP, associazione di associazioni, che dialoga con l’Unione Europea – e dall’altra l’emergere del mondo dei coworking.

Anni fa, Sergio Bologna scriveva che il postfordismo stava generando una “domesticazione” del lavoro. Portava i knowledge worker nelle loro case, ben attrezzate con PC e modem. Oggi assistiamo al fenomeno inverso, cioè alla necessità di riguadagnare spazio sociale per il lavoro autonomo. La nostalgia del posto fisso – come sostiene qualcuno – non c’entra. Chi va in un coworking non lo trova e neppure lo cerca. It’s not about place, it’s about people, diceva a novembre, a Berlino, Alex Hillman del celebre IndyHall di Filadelfia. Spesso si è costretti a cambiare posto, scrivania, città. Le persone, gli individui sono il cuore del fenomeno. I coworking sono spazi di transito e sosta, senza differenza. Sono luoghi dove lavorare, incontrare persone o clienti, perfino perdere tempo. Consentono di recuperare quell’umanità del lavoro che è fatta di contiguità, tempo condiviso, ozio creativo in collaborazione con altri, opportunità di relazione viva, prossimità. Curiosamente anche produttività, come ha certificato l’ultima ricerca di Deskmag.

Questi spazi ospitano lavoratori già formati, ma anche giovani studenti e spesso disoccupati o lavoratori in età adulta appena usciti dal sistema d’impresa. È ovvio che per una città come Milano, che ha 7 Università, un terziario avanzato molto ricco di risorse, un retroterra industriale e di grandi imprese che stanno perdendo terreno rispetto alla città, sviluppare il mondo dei coworking è in termini potenziali un passo da fare. I coworking sono spazi per eventi, per chi vuole ripensare il sistema di collaborazione e co-projecting e sempre di più punti di raccolta tra chi fa innovazione. Si pensi all’ospitalità data da Toolbox Coworking di Torino agli sviluppatori che impiegano Arduino. I coworking sono un fenomeno di un’epoca (post-fordista) in cui il lavoro è sempre di più un percorso di transizione e dove i concetti di “protezione sociale” e “investimento” sono sempre di più sinonimo di “reti professionali” e “contaminazione tra i saperi”.

Come ACTA da anni lavoriamo per sensibilizzare l’opinione pubblica e la politica su questo fronte, sulla necessità di offrire un rinforzo al mondo dei freelance, al loro sviluppo e alla libertà di crearsi una vita professionale davvero autonoma. Anche perché è spesso da questo lato del mercato del lavoro che nascono nuove opportunità. Settimana scorsa al Festival del Lavoro di Brescia erano tutti concordi nel dire che il nuovo lavoro nasce sempre di più dall’iniziativa del mondo professionale autonomo o dalle start-up. Purtroppo nessuno ha contestato il fatto che, per esempio, nel Decreto Sviluppo la nuova occupazione sia immaginata soltanto attraverso crediti d’imposta su assunzioni a tempo indeterminato: gli innovatori sono soltanto i ricercatori scientifici che vanno in azienda! Nessuno ha osato denunciare il colpo mortale al costo del lavoro freelance portato dal DDL Lavoro che diventerà definitivo questa settimana alla Camera! Tutti zitti su questo: la politica si siede quasi sempre sui modelli esistenti, ha paura di scommettere sul nuovo. I freelance, no, da un certo punto di vista, hanno sviluppato anticorpi a questo ritardo.

Milano, Torino, Alessandria, Firenze, Roma, Udine, Pordenone, Brescia… stanno diventando nuovi snodi del lavoro professionale, prima ancora che la politica se ne accorga. Quali suggerimenti può offrire dunque un’associazione come ACTA alla politica? Il primo interrogativo da porsi, a nostro avviso, come sostiene Adriana Nannicini, quando si pensa ai coworking è in merito a quale rapporto esista tra città e persone. Sugli individui si sa poco. Il resto si può identificare e, volendo, anche censire con facilità. Il fabbisogno, invece, è più complesso. Sono noti, per esempio, gli asset dei coworking: 1) le Property, ovvero l’asset immobiliare, lo spazio inteso come location, area, luogo; 2) la Comunità di persone, ovvero i gruppi di lavoratori e la speculare capacità dei manager dei coworking di aggregarle; 3) i Servizi offerti; 4) il Capitale intellettuale, ovvero l’insieme di risorse uniche di intelligenza parcellizzata e collettiva che vive in questi spazi. Una questione più delicata, invece, sono i modelli di business. Personalmente, in uno studio che sto portando avanti da un anno, ne ho identificati sei.

Il mix di questi fattori sta determinando un effetto sbalorditivo: in Europa questi spazi raddoppiano ogni anno, dice Deskmag. A me pare una cosa fantastica, una vera innovazione nel mondo del lavoro. A Berlino, dove furono presentati questi dati durante la Coworking Conference 2011, Steve King di Emergent Research parlava di 35 mln di freelance negli Stati Uniti e di 23 milioni in Europa. A noi, inteso come ACTA, e qui riporto la voce di Sergio Bologna che oggi non c’è, pare che a Milano i coworking rappresentino un punto di appoggio importante per giovani che ancora devono costruirsi un percorso di carriera da una parte e per i professionisti con una consolidata esperienza alle spalle dall’altra. Sono luoghi dove fisicamente, e ideologicamente, si esce dall’individualismo di origine neo-liberale che spesso ha dominato la cultura delle partite Iva. I freelance – crediamo – non sono e non possono essere monadi autosufficienti che in totale autarchia si fanno largo nel mercato. L’arrivista non frequenta di solito spazi di collaborazione. Non è un caso, se ci pensate, che molti gestori non pensano agli altri Coworking come veri competitor.

Un secondo punto è la questione del precariato. Ad ACTA la visione del coworking come servizio a strati per lavoratori precari o con difficoltà non convince per niente: il coworking si iscrive invece nello spazio dell’innovazione sociale e dell’innovazione tecnologico-organizzativa. Per questo il classico approccio sistemico, come se si dovessero calare politiche attive uniformi sul territorio teorico del coworking, non funzionerebbe. Meglio percorrere strade che determinino buone prassi e che abbiano una forte componente di replicabilità e flessibilità. Questo significa in primo luogo che all’amministrazione pubblica si chiede coinvolgimento partecipativo. Non soldi. Questo non lo dico io, ma una comunità di 300 coworking manager di tutto il mondo che in un workshop hanno discusso proprio delle migliori relazioni che potrebbero sorgere tra PA e Coworking.

Decalogo Cowo vs PA

Eccovi una lista stilata a Berlino (questa foto rarissima ce l’hanno due persone, oltre al sottoscritto anche Massimo Carraro di Coworking Project) dei desiderata di chi frequenta, vive, gestisce coworking:

  1. Sapere che le amministrazioni osservano, ascoltano, partecipano;
  2. Spazi. Servirebbero spazi vuoti da riempire. Pensate al coperchio che Macao sta sollevando su questa pentola a Milano…;
  3. Al massimo, se di soldi dobbiamo parlare, che siano i coworker o le piccole imprese a beneficiarne, usando i coworking;
  4. La PA potrebbe semplicemente promuovere i Cowo con azioni di relazione pubblica e i canali di networking istituzionale;
  5. Perché non incentivare il lavoro in generale nei coworking?;
  6. La PA non ha mai pensato di promuovere attività del settore pubblico proprio nei coworking?;
  7. .. o di farsi offrire una mano dai coworking?;
  8. Sarebbe auspicabile poter ridefinire le relazioni tra municipalità e cittadini affinché la partecipazione al lavoro e l’idea di sviluppo della città passi anche da qui;
  9. Sperimentazioni. Perché la PA non invita gli impiegati pubblici a passare del tempo insieme ai freelance?;
  10. Ultimo, sapendo che è giusto che arrivi come ultima chance, i soldi. Soldi per finanziare ricerca, affiliazioni ai Cowo, iniziative ed eventi di interesse sociale, pincipalmente.

Da parte mia mi permetto tre proposte personali, un po’ tecniche, portate pazienza. Riguardano entrambi i lati della questione coworking. Prima proposta: l’IMU. Se è vero che i coworking hanno una valenza sociale per l’azione di riaggregazione che stanno esercitando intorno a un mondo di lavoratori piuttosto abbandonati dalle politiche sociali, da Milano può partire un messaggio simbolico. Costa poco, davvero poco, ma definire un’aliquota per la seconda rata IMU simbolica per questi spazi sarebbe un’azione politica importante. C’è tempo fino al 30 settembre per stilare i regolamenti comunali in materia. Beh, io un pensiero politico lo farei, e dopo averlo fatto lo direi all’Italia intera. Gli spazi di aggregazione lavorativa che incentivano l’occupazione e non il profitto vanno aiutati.

Seconda cosa: IRAP. I freelance conoscono questa maledizione. Una tassa per le imprese che sono obbligati a pagare come professionisti indipendenti. Per un rimborso servono fino a 7 anni di contenzioso con l’Agenzia delle Entrate. Come ACTA stiamo monitorando il fenomeno. Nel 99% dei casi i freelance vincono contro lo Stato. Fior di sentenze indicano che non deve essere pagata, ma se non paghi l’Agenzia delle Entrate ti massacra di cartelle esattoriali. Nei casi arrivati in Cassazione, ce n’è uno interessantissimo (Ord. Cass. 9692/2012), di due settimane fa che sostiene che “Il professionista paga l’Irap solo quando la struttura che lo coadiuva nella sua attività l’ha fondata lui e non quando si appoggia a una struttura gestita da altri”. Trattava il caso di un medico con Partita Iva che si appoggiava un ambulatorio ospedaliero. L’analogia è intuibile con i Coworking. Immaginate un Comune insieme alla Regione che studiano una prassi specifica: per esempio la comunicazione all’Agenzia delle Entrate – come avviene per i contratti di comodato – di lavoro presso i Coworking, e codici tributo corrispondenti, specifici per pagare a “ZERO” l’Irap. Questo vale in Lombardia il 4,5% del fatturato del freelance che lavora nel coworking, e l’avrebbe subito, senza violare leggi, non tra sette anni. Costo dell’operazione? Zero.

Terzo suggerimento: dall’8 al 10 novembre si tiene a Parigi la terza Cowoking Conference europea. Mandate qualcuno, ma non per capire come mai il Comune di Parigi finanzia La cantine con 200mila euro all’anno, ma per creare un raccordo con i vostri omologhi all’estero. Dopo Bruxelles, Berlino e Parigi non mi dispiacerebbe che questo evento arrivasse anche a Milano. Questo può accadere nel 2013, prima dell’Expò. È noto che tale evento comporterà il passaggio a Milano di una massa importante di imprenditori, professionisti, consulenti e rappresentanti di ogni Paese del mondo. La possibilità di mostrare le soluzioni che Milano offre ai cosiddetti nomad worker renderebbe la nostra città non soltanto più ospitale nell’immediato, ma verrebbe riconosciuta come città aperta, integrata e attiva che potrà così accreditarsi sulle reti lunghe, nell’immagine di una metropoli che consente di fare business e aiuta i professionisti indipendenti, un aspetto che interessa moltissimo ai freelance milanesi e non solo, che cercano una città ospitale, ricca di opportunità.

Dario Banfi

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di Dario Banfi tempo di lettura: 8 min
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