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Parole che pesano, ma la storia la scriviamo noi

12 Ottobre 2010 Lavoro, Previdenza

Uno dei modi per sentirsi una persona, un individuo compiuto, è di provare un senso di appartenenza. A partire dal linguaggio. Io sono “cittadina italiana”, “donna”, “madre di famiglia” e “lavoratrice”. Appartengo a una serie di categorie, tutte importanti, che descrivono e rinforzano la mia dignità. Sono “lavoratrice”, in primo luogo, certamente, perché questa è un’esigenza insopprimibile, non soltanto sotto il profilo economico (per guadagnarmi il pane), ma perché rappresenta un valore, un modo che ho per riconoscere me stessa e sentirmi parte di un gruppo che afferma la mia identità e fornisce certezze.

Il Lavoro, però, è cambiato negli anni e l’utilizzo di forme di lavoro flessibili, per definizione instabili e incerte, non è sempre così facile da accettare. Noi, lavoratori di nuova generazione, Popolo delle Partite IVA, ci stiamo provando, seriamente provando, a convivere con il rischio e con periodi di disoccupazione, con la necessità di una formazione e un aggiornamento continui, con una vaghezza legata al senso di appartenenza a un gruppo che ancora fatica a trovare un’identità. Eppure abbiamo accettato la sfida, la stiamo vivendo. La stiamo scrivendo in prima persona questa storia.

PARADove voglio arrivare? Alle parole che precedono i fatti. La flessibilità del mercato del lavoro, è vero, porta come prima conseguenza l’incertezza e questa può farti vacillare perché sei fuori da un percorso noto e regolato, già scritto, ma un fatto è certo: dove siamo noi, nel nostro mondo del lavoro, le cose sono ancora tutte da scrivere! Per questo occorre fare molta attenzione alle parole usate per descrivere il cambiamento, perché le parole hanno un peso.SUBORDINATO E circoscrivono fatti. Questa parola, già scritta impropriamente e carica d’interpretazioni spesso sbagliate, è umiliante oltre che brutta: parasubordinati.

Così ci definisce l’INPS.

La parola meno estetica, più demotivante e avvilente che esiste nel vocabolario del lavoro è a mio avviso proprio “parasubordinati“! Recita così lo Zanichelli, definendo il significato del lemma <para>:

“[…] in numerose parole composte indica vicinanza, somiglianza o deviazione, contrapposizione.”

… e per <subordinato> offre questa definizione:

“Disciplinato, ubbidiente, rispettoso; lavoro subordinato che si presta alle dipendenze e sotto la direzione del datore di lavoro”.

Il significato che è stato assegnato a questa orrenda parola, come si può intuire, suona più o meno così: è inutile che tu ti dia delle arie, resti un semplice esecutore materiale di operazioni dettate dal progresso tecnologico, uno schiavo moderno del mercato, con l’aggravante che aspiri a essere un subordinato e a rientrare nelle regole conosciute, ma non puoi.

E’ solo una parola, è vero, ma mostra chiaramente come i rapporti di lavoro siano ancora permeati da questa cultura immobile e arcaica che non lascia spazio al «diverso» e aggiunge al peso dell’incertezza della nostra situazione lavorativa anche quello di un cambiamento culturale che stando alle parole utilizzate, stenta davvero a divenire.

Elsa Bettella

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3 Commenti

  1. Adele Oliveri

    Reply

    Sono osservazioni senz’altro interessanti e condivisibili. Vorrei capire però se è vero che per la legge i lavoratori autonomi con partita IVA sono considerati parasubordinati o se invece non costituiscono una categoria di lavoratori autonomi a sé. Sempre sullo Zingarelli, alla voce “parasubordinato”, trovo: “Lavoratore non dipendente che ha un rapporto di collaborazione o consulenza con un’azienda”. Stando a questa definizione, io non posso considerarmi una parasubordinata, perché non intrattengo rapporti di questo tipo con i miei clienti, a cui vendo invece un servizio su base commerciale (per chi non lo sapesse, sono una traduttrice con partita IVA). Credo che sia molto importante fare chiarezza su questi termini, perché è proprio la confusione quella che permette il perpetuarsi di certe ingiustizie.

    12 Ott 2010
  2. Guido

    Reply

    Credo che ti sbagli, la casa editrice ti considera collaboratrice. Anche perché il servizio che offri si basa su degli accordi precisi che devi rispettare altrimenti si rivolge ad altri.

    13 Ott 2010
  3. Adele Oliveri

    Reply

    @Guido: in realtà un traduttore non lavora solo per case editrici, ma anche per aziende, agenzie di traduzione, università, enti pubblici e chiunque abbia bisogno di un servizio di traduzione professionale. Nel caso delle traduzioni editoriali, si stipula un contratto per cessione di diritti d’autore e non un contratto di collaborazione. Se fosse giusto il tuo ragionamento, allora anche gli autori che pubblicano libri con una casa editrice sarebbero considerati collaboratori, e non mi pare che sia questo il caso (a meno che tu non voglia considerare, chessò, Saviano un “collaboratore” di Mondadori :-)).
    Nel caso delle traduzioni non editoriali o che comunque non ricadono nella fattispecie del diritto d’autore, la traduzione è considerata una prestazione di servizi, e infatti la maggioranza dei traduttori “autonomi” lavora con partita IVA. Che non si tratti di “collaborazione” lo si desume dal fatto che il lavoro fatto per un dato committente può essere sporadico e occasionale. Diverso è il discorso di chi, pur avendo una partita IVA, lavora stabilmente per un singolo committente “come se” fosse un lavoratore dipendente o un collaboratore a progetto.
    È alla luce di queste considerazioni che sollevavo dubbi sul fatto che i lavoratori che operano in regime di partita IVA siano considerati alla stregua di parasubordinati. Non ne sono sicura, e spero che un esperto di normativa del lavoro possa chiarire questo mio dubbio.

    13 Ott 2010

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Parole che pesano, ma la storia la scriviamo noi

di Elsa Bettella tempo di lettura: 2 min
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