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Maternità e Gestione separata: una storia (finta) per molte storie (vere)

28 Maggio 2015 Maternità

mamma non mamma acta

Eppur si muove, anche dove e quando meno te lo aspetteresti.

Sono una partita iva, socia Acta da un paio di anni, e per campare scrivo cose. Quando di lavoro come copy non ce n’è abbastanza o quando ce n’è ma mi piace pensare di avere lo stesso quel che in un universo parallelo (non il mio, non il nostro) si chiama “tempo libero”, scrivo comunque cose: racconti, ogni tanto qualche buon proposito per un romanzo. Lo scorso mese di settembre mi è capitato sotto gli occhi un concorso indetto da una piccola casa editrice di Torino, la Neos Edizioni. Tema: Mamma, non mamma. L’iniziativa era in collaborazione con diversi Assessorati alle Pari Opportunità: della Regione Piemonte, della Città di Torino, di Rivoli. Mi son detta: perché no? Ho deciso di partecipare con un racconto che parlasse della maternità vissuta da una libera professionista iscritta alla Gestione Separata INPS. No, non si trattava della mia storia (benché io sia effettivamente iscritta alla gestione separata INPS e benché io sia effettivamente madre), ma della storia di Giovanna: 35 anni, felicemente single, una partita IVA aperta, un solo cliente rimasto dopo la crisi e un test di gravidanza positivo.

Di Giovanna ho voluto raccontare la decisione di tenere il bambino nonostante tutto, le contrazioni pretermine affrontate con filosofia e senza maternità anticipata (“perché per noi, iscritte alla gestione separata, di anticipato ci sono solo le tasse da pagare”), la via crucis al patronato INPS, il cliente unico superstite che al nono mese prende il largo, la madre che, dalla sua tranquillità di ex dipendente pubblico con intoccabile pensione retributiva, continuamente la incalza: «Ma perché non vai a chiedere la disoccupazione? Perché non vai a chiedere la mobilità? Guarda la Stefania, la figlia della Bice, che faceva la commerciale per quell’azienda lì, come si chiama, quell’azienda grande di serramenti: è a casa da un anno ormai, e prende mille euro al mese. E poi per arrotondare, perché mille euro non è che siano tutta ‘sta gran cifra, va a fare le ripetizioni di tedesco a quelli del linguistico, in nero.»

Ho scritto, ho spedito e poi non ci ho pensato più.

A febbraio, o forse era marzo, non ricordo, arriva una telefonata: era la Neos Edizioni. Il mio racconto era fra i tre finalisti. Premiazione: sabato 16 maggio, al Salone del Libro di Torino.

Alla premiazione alla fine non ci sono andata: mi sono ammalata. Peccato. Ci fossi andata, mi avrebbero certo fatto dire due parole, e una di quelle due parole sarebbe stata Acta. Mi hanno telefonato il giorno dopo, domenica mattina, per chiedermi come stavo e per dirmi che il mio racconto aveva vinto il primo premio, ex aequo. Caspita, mi son detta. E caspita non perché il mio racconto avesse un particolare valore letterario (non ce l’ha), ma perché ad aver catturato l’attenzione è stato sicuramente il tema, siamo stati noi. Noi, grazie ad Acta, a quello che è stato seminato in tutti questi anni e che finalmente, grano per grano, cominciamo a raccogliere. Ho voluto scrivere per ringraziare e Anna Soru mi ha fatto il regalo di ospitarmi qui.

Alla fine Giovanna ce la fa. Si reinventa. Cambia lavoro (ma resta freelance). E il mio racconto si chiude così: “Questo non è un lieto fine. Sono ancora una libera professionista e so che, pur se di figli non ce ne saranno più, quella situazione di tutele evanescenti e pesante abbandono che ho vissuto con la nascita di Iris potrebbe riproporsi in caso di malattia. E se anche questo non accadesse, se anche per me, da oggi in poi, la strada fosse sempre in discesa, resta la consapevolezza che sono migliaia, in Italia, le professioniste costrette a scegliere tra maternità e lavoro, perché la tanto invocata conciliazione resta per loro un percorso a ostacoli disseminato di silenziose prepotenze e legittime asimmetrie. Ma se le cose stanno veramente così, se davvero c’è un esercito di figlie di uno Stato minore per le quali è un lusso ciò che per altre è la normalità, com’è che non si riempiono piazze, fermano uffici, snodano cortei? Il grido non riesce a prendere forma, soffocato com’è dall’urgenza di fatture non pagate, collaborazioni non rinnovate, clienti che scompaiono, dall’urgenza di sopravvivere; e così muore in gola, con la percezione rabbiosa e rassegnata che le cose dovrebbero andare diversamente. Perché se il primo diritto di ogni donna, di tutte le donne – dipendenti e precarie, professioniste e stagiste, imprenditrici e disoccupate – è quello di poter decidere di avere un figlio, il primo dovere di un Paese civile, di un Paese che possa davvero definirsi tale, è fare in modo che questo avvenga.”

Il racconto, che s’intitola “Il primo diritto”, è stato pubblicato in una antologia, ma, per chi volesse, l’ho caricato anche sul mio sito e su Isuu.

Valentina Durante
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2 Commenti

  1. Lorena Bartocetti

    Reply

    Condivido in pieno! Quanto è dura essere mamme e dover ogni giorno scegliere tra il proprio figlio e la giusta voglia di affermazione e autorealizzazione! Eppure sono entrambi colonne portanti della vita di una donna, sono l’ossigeno…e come tale non ne puoi fare a meno!

    1 Giu 2015
  2. Alessandro

    Reply

    Ottimo articolo! Ma ci sono anche i papà!

    2 Giu 2015

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